venerdì 19 aprile 2013

Come quel giorno cambiò la mia vita.


La mia vita aveva da poco subito un grande sconvolgimento, la mia famiglia si era trasferita a Pozzallo, in provincia di Ragusa e avevo lasciato il mio piccolo mondo conosciuto del paesino dove ero nato sulle pendici dei Nebrodi. Ma quell’estate la passai comunque a Sinagra, da mia nonna, dove ero vissuto sin dalla nascita. Era l’agosto del 1990 e il destino stava preparando per me un incontro che mi avrebbe cambiato la vita, per sempre. La sera scesi in piazza perché c’era uno spettacolo, i Nomadi in concerto! Non ne avevo mai sentito parlare, non sapevo chi fossero, che musica suonassero, niente. Poi iniziò il concerto, io ero in prima fila, attaccato alle tavole del palco ai piedi del bassista, non sapevo fosse per loro l’anno della rinascita dopo i momenti difficili vissuti dal gruppo per la spaccatura interna e per me fu soltanto un concerto fantastico, un carico di emozioni che non avevo mai provato prima, come se improvvisamente mi si fosse aperta una porta nascosta ma che era sempre stata li. Augusto Daolio mi aveva incantato, aldilà delle canzoni, con la sua presenza, con le sue parole, con il suo modo unico di stare sul palco. Da quel momento fu l’inizio della mia malattia nomade, dell’innesto nel mio DNA di quei cromosomi nomadi che avrebbero cambiato radicalmente lo sviluppo della mia vita.
Nei giorni successi al concerto iniziai a cercare dischi e tutte le informazioni relative ai Nomadi, per capire, per conoscere, come un bisogno incontrollabile, come una droga. L’anno successivo ero pronto per vivere a pieno l’emozione di un altro concerto, stavolta programmato e atteso per giorni, era sempre estate, il concerto si sarebbe tenuto a Castell’Umberto, un paesino a pochi chilometri da Sinagra, dove era nata mia madre. Nel pomeriggio ero in attesa che i miei mi portassero sul posto e giochicchiavo col la palla nel cortile della casa di mia nonna, quando una macchina si fermò li davanti e il conducente abbassò il finestrino per chiedermi un’informazione: “scusa per Castell’Umberto?”. Non riuscii a rispondere subito, avevo riconosciuto in quello sconosciuto Daniele Campani, il batterista dei Nomadi che con la sua famiglia si stava recando al concerto! Gli chiesi se potevo stringergli la mano e gli diedi emozionato le indicazioni che mi aveva chiesto e lui con un gran sorriso mi disse che ci saremmo visti la sera al concerto. Non stavo più nella pelle, corsi dentro a dire ai miei dell’accaduto e che non c’era tempo da perdere, mi dovevano portare immediatamente a Castell’Umberto!
Quando arrivammo sul posto, il palco era praticamente pronto, niente transenne, niente security, i Nomadi erano ancora quello che mi aveva fatto innamorare di loro all’epoca, un gruppo di persone atipiche, antidivi per eccellenza, che nel rapporto diretto con il loro pubblico vedevano il segreto della loro longevità artistica. Parlai a lungo con Dante Pergreffi, il giovane bassista che all’epoca aveva 29 anni, gli chiesi mille cose e lui con una grande cordialità rispose a tutte le mie domande. Poi fu il momento di conoscere Beppe Carletti, era li anche lui con la sua famiglia (all’epoca viaggiavano tutti insieme, specialmente quando si spostavano al Sud) e gli raccontai di essere un appassionato musicista, che avevo iniziato da piccolissimo a studiare musica e che ora ero semplicemente un nomade! Mi lasciò il suo indirizzo per poterci scrivere in futuro. Ma il trionfo delle mie emozioni arrivò poco più tardi quando davanti a me comparve Augusto, con il suo giubbotto di jeans sgualcito, la sua barba lunga e gli occhiali inconfondibili. La prima cosa che feci fu di chiedergli se potessi abbracciarlo e lui, con un sorriso magico mi disse “Ma certo, vieni qui!” e mi strinse forte!
Quella sera il concerto fu magico, ero al settimo cielo, ero ormai parte della famiglia nomade e tutto era più chiaro.
I mesi successivi furono una continua scoperta, cominciai a collezionare i vari dischi, ascoltando avidamente tutto ciò che trovavo e mentre i miei coetanei impazzivano dietro Vasco o i Litifiba, io ero fuori dalle mode, mi beccavo gli sfottò dei miei amici perché mi piaceva un gruppo di vecchi cantanti anni sessanta. Ma non afferravano, non potevano capire cosa significasse, dovevano entrare in quel mondo per comprenderlo veramente. La trasformazione di pensiero cominciava a trasparire anche esteriormente, i miei capelli erano sempre più lunghi, il mio aspetto non certo “curato e fashion”, ma era il mio status, era il mio essere nomade dentro un mondo di apparenze che non mi apparteneva.
Era una gioia grande quando per caso e in maniera del tutto eccezionale sentivo una canzone dei Nomadi alla radio oppure trovavo a notte fonda qualche trasmissione televisiva che li ospitasse, non sono mai stati molto avvezzi alla tv e debbo dire che anche questo è stato un bene, li ha impreziositi. Tutto scorreva così nei miei giorni, coltivando una coscienza civile profonda, legata ai temi sociali delle canzoni di Augusto, che mi faceva crescere consapevole di un mondo pericoloso, appariscente, poco interessato ai contenuti, che poteva essere però cambiato attraverso un atteggiamento consapevole, con una sana curiosità. Invece io mi arricchivo di altro, mi appassionava leggere autori lontani che erano alla base di molti dei testi delle canzoni dei Nomadi, sentivo dentro quella passione per gli ultimi, per le cose belle, per la vita in generale, senza sprecarne una sola goccia. E mentre la loro musica e le parole di Augusto mi plasmavano, il 14 maggio del 1992 arrivò una notizia tremenda: Dante Pergreffi era morto in un incidente stradale a soli 30 anni! Lessi l’articolo su di un quotidiano, in una mattina di scuola marinata come tante in quel periodo, ero insieme ad un amico che capì subito che per me significava qualcosa di più dell’apprendere una notizia di cronaca. Corsi a casa e presi un foglio di carta e una penna e scrissi una lettere ad Augusto, temendo che quel tragico fatto li avesse potuti convincere a smettere, visto il legame particolare che lui stesso aveva con Dante. Con mio grande stupore, qualche settimana dopo mi arrivò una cartolina che rappresentava un quadro di Augusto e dietro, le sue parole meravigliose, con le quali mi diceva di amare tanto la mia terra e che i Nomadi non si sarebbero fermati, avrebbero continuato anche per tutti gli amici che come me li avevano spronati. “Like a sea never die”, questa la frase conclusiva, che riprendeva il titolo di un loro doppio album live del 1987. Conservo quella cartolina gelosamente, come una reliquia, come il gesto d’affetto di un amico che in quel momento di sofferenza aveva trovato il tempo per rispondermi e rassicurarmi.
Io all’epoca facevo già pianobar, avevo 15 anni e mio padre mi portava in giro per i locali che mi avevano scritturato, un po’ in tutta la provincia di Ragusa: era strano vedere sto ragazzo con i capelli lunghissimi, dietro a tre tastiere che nei ristoranti, nelle pizzerie e nei bar cantava canzoni come Dio è morto, Canzone per un’amica, Io vagabondo!
Tutto scorreva nella mia vita da adolescente, i primi amori, la scuola che comunque andava avanti, tanti amici che mi volevano bene e per i quali ero “Alex il nomade”, un punto di riferimento. I Nomadi e in particolar modo Augusto erano diventati la mia religione, un modo di stare al mondo differente. Cominciai a scrivere poesie, dipingere a tempera e matita, mi sentivo in piena rivoluzione sociale, un cambiamento da testimoniare quotidianamente.
Era il 7 ottobre del 1992, ero in un bar del centro insieme ad un mio carissimo amico, una ragazza che mi aveva mollato il giorno prima entra e mi viene a dire: “Ti sei vestito a lutto?”. In effetti avevo una maglia nera e avevo inteso che lei si riferisse al fatto di avermi lasciato e con spavalderia le risposi che non me ne fregava niente! E lei mi disse: “come, non ti frega niente che è morto il cantante dei Nomadi?”. Fu come una fucilata, un pugno sferratomi in pieno volto che mi fece barcollare, mi dovetti sedere, mi sentii quasi mancare. Non poteva essere vero, era uno schifoso scherzo, una bufala!
Non lo era, Augusto Daolio era morto davvero, si era spento quella mattina a casa sua dopo mesi di una straziante malattia di cui il mondo esterno non sapeva niente, perché lo avevano tenuto al riparo da qualsiasi chiacchiericcio e forse anche per questo lui aveva continuato a cantare quasi fino alla fine, lottando con quel male per dieci mesi. Quindi quando mi aveva scritto era già malato, anche se le biografie ufficiali dicono che lui non ne fosse a conoscenza, ma nel mio cuore so che invece lui sapeva e fino alla fine ci ha regalato il suo sorriso e la sua voce indimenticabile, come un inno alla vita e non alla morte.
Seguirono giorni d’inferno, mi trincerai in casa, piangevo in continuazione come fosse morto mio padre. Avevo perso il mio punto di riferimento, l’esempio più importante della mia vita, colui che mi aveva insegnato tutto pur avendolo incontrato una sola volta. Non avrebbe mai più risposto alle mie lettere, non avrei mai più potuto abbracciarlo. Era chiaro che i Nomadi erano finiti, che si era scritta la parola fine su quella storia lunga quasi 30 anni e che io avevo imparato a conoscere solo da due. Mia madre non sopportava più il mio vivere rinchiuso in casa e fece una cosa che non avrei mai immaginato. Un pomeriggio mentre ero nella mia stanza sento suonare il telefono, mia madre mi viene a dire che era per me, prendo la cornetta e dall’altro lato del filo sento la voce di Beppe Carletti che mi saluta! Incredibile, mia madre aveva trovato il modo di contattarlo e si era messa d’accordo con lui affinchè mi chiamasse. Mi disse che la morte di Augusto era una cosa terribile, che per lui era stato come perdere un fratello e che tutto sarebbe stato diverso da quel momento. Che dovevamo ricordarlo per il grande uomo che era stato e per tutto quello che aveva donato a tutti noi. Ma la cosa più bella che mi disse fu che i Nomadi non si sarebbero fermati, che avrebbero continuato nel suo nome.
Fu come rinascere per me, avevo ricevuto un segno che quello su cui avevo investito gli anni della mia adolescenza era vero, era reale. Così cominciò a crescere dentro di me la voglia di avere qualcosa di mio con cui far conoscere a tutti Augusto, essere un esempio vivente di ciò che mi aveva lasciato. Nel dicembre del 1993 io e Rosario Giordanella, un chitarrista innamorato dei Dire Straits, costituimmo un duo con il quale cominciammo a fare qualche serata e nel gennaio del 1994, coinvolgendo altri tre ragazzi, nacquero i Samizdat, probabilmente la prima Nomadi cover band d’Italia. Da quel momento non ci siamo più fermati, una storia lunga 20 anni che racconta tutta la mia vita, tutto il mio amore per i Nomadi di Augusto, per la sua filosofia di vita. In quegli anni feci una promessa, che se avessi avuto un figlio, il suo nome sarebbe stato Augusto e così è stato, l’otto marzo del 2008 è nato il mio primogenito ed il suo nome è Augusto, come quel padre spirituale che mi accompagna ancora oggi nella vita, che mi ha insegnato ad essere attento, curioso, vigile, vivo e amante della vita.
Augusto Daolio ha saputo mettere fuori l’immenso pieno che la natura gli ha regalato sin dalla nascita. E’ stato un cantante, come tutti sanno, ma è stato soprattutto un pittore, capace di realizzare centinaia di opere uniche nel loro genere, con al centro sempre la natura e il suo legame ancestrale con l’uomo. Di questo Augusto è stato un grande maestro, del saper raccontare con tutte le forme dell’arte il rapporto uomo-natura sotto tutti gli aspetti: dalla simbiosi che lega questi elementi, alla capacità dell’uno nel sopraffare l’altro. E nonostante nelle sue canzoni o nei suoi dipinti abbia rappresentato anche la morte, non lo ha mai fatto senza sfociare poi nel racconto della vita. Si perché nelle canzoni si può parlare di morte, d’amore e di tutti gli altri aspetti della vita, ma l’intelligenza del cantante o dell’autore deve stare nel saperlo fare ricordandosi che ci si rivolge ad un pubblico che deve poter coglierne le sfumature positive, portare a casa qualcosa su cui riflettere e andare avanti sulla base di ciò che ha ricevuto. La canzone impegnata per Augusto era questo, non tanto parlare di politica come molti pensano, ma trasmettere un messaggio o meglio, raccontare una storia che possa poi essere assimilata e lasciare frutto, e farlo in tre minuti di canzone deve essere la scommessa da vincere, l’impegno.
Nel mio piccolo penso di aver seguito il solco lasciato da Augusto, scrivendo canzoni mai banali, almeno secondo i miei canoni, raccontando pezzi di vita con il rispetto che si deve avere per chi quella vita l’ha percorsa. E la mia prima canzone non poteva che essere “Canzone per Augusto”, con la quale a 17 anni esprimevo tutto quello che questo personaggio è stato per me e probabilmente anche tutto quello che sarebbe stato nel futuro, anche se non lo potevo sapere.
Credo che oggi la figura di Augusto vada rivalutata e fatta conoscere ai giovani, perché c’è un immenso bisogno di esempi positivi, di valori universali tangibili che possano aiutare a crescere e creare il proprio giudizio sul mondo. Non mi vergogno di quello che sono, non mi è mai importato di essere alla moda o di inseguire il successo musicale, avrei potuto farlo scegliendo esempi meno impegnati e sicuramente più “commerciali”, ma so che avrei tradito me stesso, quello che quel ragazzino di 14 anni aveva scoperto di essere in quell’estate del 1990 quando un gruppo degli anni sessanta si era presentato per la prima volta davanti a lui per cantare “Sempre Nomadi”.

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