La mia vita aveva da poco subito
un grande sconvolgimento, la mia famiglia si era trasferita a Pozzallo, in
provincia di Ragusa e avevo lasciato il mio piccolo mondo conosciuto del
paesino dove ero nato sulle pendici dei Nebrodi. Ma quell’estate la passai comunque
a Sinagra, da mia nonna, dove ero vissuto sin dalla nascita. Era l’agosto del
1990 e il destino stava preparando per me un incontro che mi avrebbe cambiato
la vita, per sempre. La sera scesi in piazza perché c’era uno spettacolo, i
Nomadi in concerto! Non ne avevo mai sentito parlare, non sapevo chi fossero,
che musica suonassero, niente. Poi iniziò il concerto, io ero in prima fila,
attaccato alle tavole del palco ai piedi del bassista, non sapevo fosse per
loro l’anno della rinascita dopo i momenti difficili vissuti dal gruppo per la
spaccatura interna e per me fu soltanto un concerto fantastico, un carico di
emozioni che non avevo mai provato prima, come se improvvisamente mi si fosse
aperta una porta nascosta ma che era sempre stata li. Augusto Daolio mi aveva
incantato, aldilà delle canzoni, con la sua presenza, con le sue parole, con il
suo modo unico di stare sul palco. Da quel momento fu l’inizio della mia
malattia nomade, dell’innesto nel mio DNA di quei cromosomi nomadi che
avrebbero cambiato radicalmente lo sviluppo della mia vita.
Nei giorni successi al concerto
iniziai a cercare dischi e tutte le informazioni relative ai Nomadi, per
capire, per conoscere, come un bisogno incontrollabile, come una droga. L’anno
successivo ero pronto per vivere a pieno l’emozione di un altro concerto,
stavolta programmato e atteso per giorni, era sempre estate, il concerto si
sarebbe tenuto a Castell’Umberto, un paesino a pochi chilometri da Sinagra,
dove era nata mia madre. Nel pomeriggio ero in attesa che i miei mi portassero
sul posto e giochicchiavo col la palla nel cortile della casa di mia nonna,
quando una macchina si fermò li davanti e il conducente abbassò il finestrino
per chiedermi un’informazione: “scusa per Castell’Umberto?”. Non riuscii a rispondere
subito, avevo riconosciuto in quello sconosciuto Daniele Campani, il batterista
dei Nomadi che con la sua famiglia si stava recando al concerto! Gli chiesi se
potevo stringergli la mano e gli diedi emozionato le indicazioni che mi aveva
chiesto e lui con un gran sorriso mi disse che ci saremmo visti la sera al
concerto. Non stavo più nella pelle, corsi dentro a dire ai miei dell’accaduto
e che non c’era tempo da perdere, mi dovevano portare immediatamente a
Castell’Umberto!
Quando arrivammo sul posto, il
palco era praticamente pronto, niente transenne, niente security, i Nomadi
erano ancora quello che mi aveva fatto innamorare di loro all’epoca, un gruppo
di persone atipiche, antidivi per eccellenza, che nel rapporto diretto con il
loro pubblico vedevano il segreto della loro longevità artistica. Parlai a
lungo con Dante Pergreffi, il giovane bassista che all’epoca aveva 29 anni, gli
chiesi mille cose e lui con una grande cordialità rispose a tutte le mie
domande. Poi fu il momento di conoscere Beppe Carletti, era li anche lui con la
sua famiglia (all’epoca viaggiavano tutti insieme, specialmente quando si
spostavano al Sud) e gli raccontai di essere un appassionato musicista, che
avevo iniziato da piccolissimo a studiare musica e che ora ero semplicemente un
nomade! Mi lasciò il suo indirizzo per poterci scrivere in futuro. Ma il
trionfo delle mie emozioni arrivò poco più tardi quando davanti a me comparve
Augusto, con il suo giubbotto di jeans sgualcito, la sua barba lunga e gli
occhiali inconfondibili. La prima cosa che feci fu di chiedergli se potessi
abbracciarlo e lui, con un sorriso magico mi disse “Ma certo, vieni qui!” e mi
strinse forte!
Quella sera il concerto fu
magico, ero al settimo cielo, ero ormai parte della famiglia nomade e tutto era
più chiaro.
I mesi successivi furono una
continua scoperta, cominciai a collezionare i vari dischi, ascoltando
avidamente tutto ciò che trovavo e mentre i miei coetanei impazzivano dietro
Vasco o i Litifiba, io ero fuori dalle mode, mi beccavo gli sfottò dei miei
amici perché mi piaceva un gruppo di vecchi cantanti anni sessanta. Ma non
afferravano, non potevano capire cosa significasse, dovevano entrare in quel
mondo per comprenderlo veramente. La trasformazione di pensiero cominciava a
trasparire anche esteriormente, i miei capelli erano sempre più lunghi, il mio
aspetto non certo “curato e fashion”, ma era il mio status, era il mio essere
nomade dentro un mondo di apparenze che non mi apparteneva.
Era una gioia grande quando per
caso e in maniera del tutto eccezionale sentivo una canzone dei Nomadi alla
radio oppure trovavo a notte fonda qualche trasmissione televisiva che li
ospitasse, non sono mai stati molto avvezzi alla tv e debbo dire che anche
questo è stato un bene, li ha impreziositi. Tutto scorreva così nei miei
giorni, coltivando una coscienza civile profonda, legata ai temi sociali delle
canzoni di Augusto, che mi faceva crescere consapevole di un mondo pericoloso,
appariscente, poco interessato ai contenuti, che poteva essere però cambiato
attraverso un atteggiamento consapevole, con una sana curiosità. Invece io mi
arricchivo di altro, mi appassionava leggere autori lontani che erano alla base
di molti dei testi delle canzoni dei Nomadi, sentivo dentro quella passione per
gli ultimi, per le cose belle, per la vita in generale, senza sprecarne una
sola goccia. E mentre la loro musica e le parole di Augusto mi plasmavano, il
14 maggio del 1992 arrivò una notizia tremenda: Dante Pergreffi era morto in un
incidente stradale a soli 30 anni! Lessi l’articolo su di un quotidiano, in una
mattina di scuola marinata come tante in quel periodo, ero insieme ad un amico
che capì subito che per me significava qualcosa di più dell’apprendere una
notizia di cronaca. Corsi a casa e presi un foglio di carta e una penna e
scrissi una lettere ad Augusto, temendo che quel tragico fatto li avesse potuti
convincere a smettere, visto il legame particolare che lui stesso aveva con
Dante. Con mio grande stupore, qualche settimana dopo mi arrivò una cartolina
che rappresentava un quadro di Augusto e dietro, le sue parole meravigliose,
con le quali mi diceva di amare tanto la mia terra e che i Nomadi non si
sarebbero fermati, avrebbero continuato anche per tutti gli amici che come me
li avevano spronati. “Like a sea never die”, questa la frase conclusiva, che
riprendeva il titolo di un loro doppio album live del 1987. Conservo quella
cartolina gelosamente, come una reliquia, come il gesto d’affetto di un amico
che in quel momento di sofferenza aveva trovato il tempo per rispondermi e
rassicurarmi.
Io all’epoca facevo già pianobar,
avevo 15 anni e mio padre mi portava in giro per i locali che mi avevano
scritturato, un po’ in tutta la provincia di Ragusa: era strano vedere sto
ragazzo con i capelli lunghissimi, dietro a tre tastiere che nei ristoranti,
nelle pizzerie e nei bar cantava canzoni come Dio è morto, Canzone per
un’amica, Io vagabondo!
Tutto scorreva nella mia vita da
adolescente, i primi amori, la scuola che comunque andava avanti, tanti amici
che mi volevano bene e per i quali ero “Alex il nomade”, un punto di
riferimento. I Nomadi e in particolar modo Augusto erano diventati la mia
religione, un modo di stare al mondo differente. Cominciai a scrivere poesie,
dipingere a tempera e matita, mi sentivo in piena rivoluzione sociale, un
cambiamento da testimoniare quotidianamente.
Era il 7 ottobre del 1992, ero in
un bar del centro insieme ad un mio carissimo amico, una ragazza che mi aveva
mollato il giorno prima entra e mi viene a dire: “Ti sei vestito a lutto?”. In
effetti avevo una maglia nera e avevo inteso che lei si riferisse al fatto di
avermi lasciato e con spavalderia le risposi che non me ne fregava niente! E
lei mi disse: “come, non ti frega niente che è morto il cantante dei Nomadi?”.
Fu come una fucilata, un pugno sferratomi in pieno volto che mi fece
barcollare, mi dovetti sedere, mi sentii quasi mancare. Non poteva essere vero,
era uno schifoso scherzo, una bufala!
Non lo era, Augusto Daolio era
morto davvero, si era spento quella mattina a casa sua dopo mesi di una
straziante malattia di cui il mondo esterno non sapeva niente, perché lo
avevano tenuto al riparo da qualsiasi chiacchiericcio e forse anche per questo
lui aveva continuato a cantare quasi fino alla fine, lottando con quel male per
dieci mesi. Quindi quando mi aveva scritto era già malato, anche se le
biografie ufficiali dicono che lui non ne fosse a conoscenza, ma nel mio cuore
so che invece lui sapeva e fino alla fine ci ha regalato il suo sorriso e la
sua voce indimenticabile, come un inno alla vita e non alla morte.
Seguirono giorni d’inferno, mi
trincerai in casa, piangevo in continuazione come fosse morto mio padre. Avevo
perso il mio punto di riferimento, l’esempio più importante della mia vita,
colui che mi aveva insegnato tutto pur avendolo incontrato una sola volta. Non
avrebbe mai più risposto alle mie lettere, non avrei mai più potuto
abbracciarlo. Era chiaro che i Nomadi erano finiti, che si era scritta la
parola fine su quella storia lunga quasi 30 anni e che io avevo imparato a
conoscere solo da due. Mia madre non sopportava più il mio vivere rinchiuso in
casa e fece una cosa che non avrei mai immaginato. Un pomeriggio mentre ero
nella mia stanza sento suonare il telefono, mia madre mi viene a dire che era
per me, prendo la cornetta e dall’altro lato del filo sento la voce di Beppe
Carletti che mi saluta! Incredibile, mia madre aveva trovato il modo di
contattarlo e si era messa d’accordo con lui affinchè mi chiamasse. Mi disse
che la morte di Augusto era una cosa terribile, che per lui era stato come perdere
un fratello e che tutto sarebbe stato diverso da quel momento. Che dovevamo
ricordarlo per il grande uomo che era stato e per tutto quello che aveva donato
a tutti noi. Ma la cosa più bella che mi disse fu che i Nomadi non si sarebbero
fermati, che avrebbero continuato nel suo nome.
Fu come rinascere per me, avevo
ricevuto un segno che quello su cui avevo investito gli anni della mia
adolescenza era vero, era reale. Così cominciò a crescere dentro di me la
voglia di avere qualcosa di mio con cui far conoscere a tutti Augusto, essere
un esempio vivente di ciò che mi aveva lasciato. Nel dicembre del 1993 io e
Rosario Giordanella, un chitarrista innamorato dei Dire Straits, costituimmo un
duo con il quale cominciammo a fare qualche serata e nel gennaio del 1994,
coinvolgendo altri tre ragazzi, nacquero i Samizdat, probabilmente la prima
Nomadi cover band d’Italia. Da quel momento non ci siamo più fermati, una
storia lunga 20 anni che racconta tutta la mia vita, tutto il mio amore per i
Nomadi di Augusto, per la sua filosofia di vita. In quegli anni feci una
promessa, che se avessi avuto un figlio, il suo nome sarebbe stato Augusto e
così è stato, l’otto marzo del 2008 è nato il mio primogenito ed il suo nome è
Augusto, come quel padre spirituale che mi accompagna ancora oggi nella vita,
che mi ha insegnato ad essere attento, curioso, vigile, vivo e amante della
vita.
Augusto Daolio ha saputo mettere
fuori l’immenso pieno che la natura gli ha regalato sin dalla nascita. E’ stato
un cantante, come tutti sanno, ma è stato soprattutto un pittore, capace di
realizzare centinaia di opere uniche nel loro genere, con al centro sempre la
natura e il suo legame ancestrale con l’uomo. Di questo Augusto è stato un
grande maestro, del saper raccontare con tutte le forme dell’arte il rapporto
uomo-natura sotto tutti gli aspetti: dalla simbiosi che lega questi elementi,
alla capacità dell’uno nel sopraffare l’altro. E nonostante nelle sue canzoni o
nei suoi dipinti abbia rappresentato anche la morte, non lo ha mai fatto senza
sfociare poi nel racconto della vita. Si perché nelle canzoni si può parlare di
morte, d’amore e di tutti gli altri aspetti della vita, ma l’intelligenza del
cantante o dell’autore deve stare nel saperlo fare ricordandosi che ci si
rivolge ad un pubblico che deve poter coglierne le sfumature positive, portare
a casa qualcosa su cui riflettere e andare avanti sulla base di ciò che ha
ricevuto. La canzone impegnata per Augusto era questo, non tanto parlare di
politica come molti pensano, ma trasmettere un messaggio o meglio, raccontare
una storia che possa poi essere assimilata e lasciare frutto, e farlo in tre
minuti di canzone deve essere la scommessa da vincere, l’impegno.
Nel mio piccolo penso di aver
seguito il solco lasciato da Augusto, scrivendo canzoni mai banali, almeno
secondo i miei canoni, raccontando pezzi di vita con il rispetto che si deve
avere per chi quella vita l’ha percorsa. E la mia prima canzone non poteva che
essere “Canzone per Augusto”, con la quale a 17 anni esprimevo tutto quello che
questo personaggio è stato per me e probabilmente anche tutto quello che
sarebbe stato nel futuro, anche se non lo potevo sapere.
Credo che oggi la figura di
Augusto vada rivalutata e fatta conoscere ai giovani, perché c’è un immenso
bisogno di esempi positivi, di valori universali tangibili che possano aiutare
a crescere e creare il proprio giudizio sul mondo. Non mi vergogno di quello
che sono, non mi è mai importato di essere alla moda o di inseguire il successo
musicale, avrei potuto farlo scegliendo esempi meno impegnati e sicuramente più
“commerciali”, ma so che avrei tradito me stesso, quello che quel ragazzino di
14 anni aveva scoperto di essere in quell’estate del 1990 quando un gruppo
degli anni sessanta si era presentato per la prima volta davanti a lui per cantare
“Sempre Nomadi”.
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