domenica 1 luglio 2012

Diario di viaggio: Luanda, gennaio 2008


Da tempo, durante i miei viaggi di lavoro, mi piace scrivere il mio diario di viaggio, non perchè serva a qualcosa, ma solo per il piacere di ricordare ciò che la mia mente, da sempre, tende a dimenticare col passare del tempo.
Allora ho deciso di condividere con chi si troverà per caso su questo blog, alcuni di questi scritti, senza nulla pretendere. Buona lettura.


Angola, gennaio 2008

Questa mattina è iniziato il viaggio che mi porterà in Angola, dove inizierò il mio nuovo lavoro.
Sono seduto su di una poltrona “in serie” all’aeroporto Leonardo da Vinci di Roma, con il mio nuovo collega A. V., e aspetto annoiato l’aereo che mi porterà a Lisbona.
Dopo quasi tre anni di matrimonio questa è la prima volta che lascio la mia famiglia. Il mio bambino è ancora dentro la mia amata moglie e questo rende questa partenza ancora più difficile e dura. Lo sto facendo per loro, per costruire un futuro migliore. Credo sia la prima volta che realmente faccio dei sacrifici fisici per loro. In questo sporco mondo, dove l’economia e il capitale regnano su tutto, sulla politica, sulle religioni, persino sui sentimenti, anch’io mi sento schiavo di questo sistema che mi costringe a cercare di più. A volte non ci rendiamo nemmeno conto di come siamo voraci, di quanto il consumo ci abbia privato. Eppure la mia speranza è riposta in mio figlio e in tutti i figli che nasceranno nel mondo, la speranza che essi percepiscano in tempo il pericolo e cambino rotta, salvandoci dall’estinzione.

Roma, Fiumicino, 10/01/2008


Un viaggio interminabile!
Nell’aereo per Lisbona sono saliti diversi uomini africani, credo del Senegal, dell’Angola, insomma dell’Africa nera, profonda, di quel continente magico e disgraziato che mi accoglierà in questa esperienza di lavoro. Sono persone affascinanti, con i loro abiti lunghi, alcuni di colore vivo, penetrante come il viola, il ciclamino; la cosa che più mi ha colpito è il loro strano profumo: un odore quasi di spezie, che ricorda i mercati arabi della Tunisia. Un profumo che ti ammalia e ti strega come una pozione magica, come l’odore stesso di un Continente.
Arrivati in aeroporto hanno occupato ognuno un posto, su una poltrona o su una sedia. Come richiamati da una forza sconosciuta ad un certo punto si sono riuniti e hanno iniziato a pregare, per terra, su di un lenzuolo che portano con loro. Che forza di volontà, che fede. Noi cristiani di ogni giorno, non saremmo capaci a manifestare senza vergogna la nostra fede in un aeroporto. Ammiro questa gente, così piena di fede, portatori della loro cultura ovunque nel mondo, senza problemi, con la semplicità delle persone che sanno ancora apprezzare il valore del tempo o il dialogo con i propri fratelli.

Lisbona, 10/01/2008

Vedere dall’alto la capitale dell’Angola è stato come assistere allo scoperchiamento di un formicaio: centinaia, migliaia di macchine, camion, pulmini, scorrono l’uno contro l’altro senza soluzione di continuità. E poi le persone, viste da lassù, minuscole, brulicanti in mezzo alle macchine. La terra tutta intorno è rossa, di un rosso “marziano” che confonde le case con tutto il resto. Luanda è una metropoli del Terzo Mondo, come si dice ora, le cui forti contraddizioni si scorgono pure dalla vista in un aereo. Siamo arrivati in perfetto orario all’aeroporto, tra la gioia di aver messo i piedi per terra e lo stupore per un caldo estivo a gennaio. In lontananza aerei demoliti fanno da sfondo a edifici desolati, hangar semi vuoti lasciano il posto ad un capannone che è l’aeroporto internazionale di Luanda.
Un incubo: quattro ore e mezza di fila per timbrare il passaporto, tra gente stanca e sudata, come me, che cerca di fregare il posto a chi c’è davanti. Occidentali, ci sentiamo sempre più furbi del resto del mondo. Ogni tanto scorgo qualche acconciatura che sembra tribale, sulla testa di qualche ragazza che sembra bella, nonostante diversa.
Superare questa prima barriera mi ha condotto nelle mani del tizio incaricato dall’agenzia Panalpina di accoglierci all’aeroporto: un ragazzone di un metro e novanta che ovviamente non parla una parola ne d’inglese ne tanto meno di italiano. Ci porta fuori, un caldo asfissiante si mescola all’odore irrespirabile dei gas di scarico dei mezzi di trasporto, che visti da terra sono ancora più numerosi. Poco dopo arriva il pulmino che ci deve portare al porto: aria condizionata e ampie vetrate per la visione turistica di Luanda. Attraversandola, la città mette a nudo tutta la regale miseria di questi abitanti “africani”, donne con grandi ceste di tuberi e pane sulle teste, venditori ambulanti che rischiano la vita cercando di piazzare la loro mercanzia proprio in mezzo alla strada, dove guidatori come il nostro, “catanesi” nello stile, non fanno niente per evitarli.
C’è un fascino particolare fra le strade polverose e sporche di questo posto, famiglie intere sedute in qualche angolo, aspettando che la madre venda un pacchetto di sigarette ai passanti per poi acquistare un sacchetto di arachidi o un pezzo di radice da masticare con in fratelli. Una ragazza ha una bancarella delle bibite, dei secchi di ghiaccio sono pronti a raffreddare bibite dall’incredibile,  consueta visione: Coca-cola, Heineken, SevenUp. Baracche attrezzate a bazar dove si vende ogni tipo di cibarie, lungo la strada che mi conduce al porto, dove attenderò altre due ore che una barchetta carichi me e altre sette persone per condurci sulla nave posa cavi Teliri, che è ormeggiata a rada, nel porto di Luanda, pieno di relitti e rifiuti come la città che lo costeggia.

Luanda, 11/01/2008