Da tempo, durante i miei viaggi di lavoro, mi piace scrivere il mio diario di viaggio, non perchè serva a qualcosa, ma solo per il piacere di ricordare ciò che la mia mente, da sempre, tende a dimenticare col passare del tempo.
Allora ho deciso di condividere con chi si troverà per caso su questo blog, alcuni di questi scritti, senza nulla pretendere. Buona lettura.
Allora ho deciso di condividere con chi si troverà per caso su questo blog, alcuni di questi scritti, senza nulla pretendere. Buona lettura.
Angola, gennaio 2008
Questa mattina è iniziato il
viaggio che mi porterà in Angola, dove inizierò il mio nuovo lavoro.
Sono seduto su di una poltrona
“in serie” all’aeroporto Leonardo da Vinci di Roma, con il mio nuovo collega A. V. , e aspetto
annoiato l’aereo che mi porterà a Lisbona.
Dopo quasi tre anni di matrimonio
questa è la prima volta che lascio la mia famiglia. Il mio bambino è ancora
dentro la mia amata moglie e questo rende questa partenza ancora più difficile
e dura. Lo sto facendo per loro, per costruire un futuro migliore. Credo sia la
prima volta che realmente faccio dei sacrifici fisici per loro. In questo
sporco mondo, dove l’economia e il capitale regnano su tutto, sulla politica,
sulle religioni, persino sui sentimenti, anch’io mi sento schiavo di questo sistema
che mi costringe a cercare di più. A volte non ci rendiamo nemmeno conto di
come siamo voraci, di quanto il consumo ci abbia privato. Eppure la mia
speranza è riposta in mio figlio e in tutti i figli che nasceranno nel mondo,
la speranza che essi percepiscano in tempo il pericolo e cambino rotta,
salvandoci dall’estinzione.
Roma, Fiumicino, 10/01/2008
Un viaggio interminabile!
Nell’aereo per Lisbona sono
saliti diversi uomini africani, credo del Senegal, dell’Angola, insomma
dell’Africa nera, profonda, di quel continente magico e disgraziato che mi
accoglierà in questa esperienza di lavoro. Sono persone affascinanti, con i
loro abiti lunghi, alcuni di colore vivo, penetrante come il viola, il
ciclamino; la cosa che più mi ha colpito è il loro strano profumo: un odore
quasi di spezie, che ricorda i mercati arabi della Tunisia. Un profumo che ti
ammalia e ti strega come una pozione magica, come l’odore stesso di un
Continente.
Arrivati in aeroporto hanno
occupato ognuno un posto, su una poltrona o su una sedia. Come richiamati da
una forza sconosciuta ad un certo punto si sono riuniti e hanno iniziato a
pregare, per terra, su di un lenzuolo che portano con loro. Che forza di
volontà, che fede. Noi cristiani di ogni giorno, non saremmo capaci a manifestare
senza vergogna la nostra fede in un aeroporto. Ammiro questa gente, così piena
di fede, portatori della loro cultura ovunque nel mondo, senza problemi, con la
semplicità delle persone che sanno ancora apprezzare il valore del tempo o il
dialogo con i propri fratelli.
Lisbona, 10/01/2008
Vedere dall’alto la capitale
dell’Angola è stato come assistere allo scoperchiamento di un formicaio:
centinaia, migliaia di macchine, camion, pulmini, scorrono l’uno contro l’altro
senza soluzione di continuità. E poi le persone, viste da lassù, minuscole,
brulicanti in mezzo alle macchine. La terra tutta intorno è rossa, di un rosso
“marziano” che confonde le case con tutto il resto. Luanda è una metropoli del
Terzo Mondo, come si dice ora, le cui forti contraddizioni si scorgono pure
dalla vista in un aereo. Siamo arrivati in perfetto orario all’aeroporto, tra
la gioia di aver messo i piedi per terra e lo stupore per un caldo estivo a
gennaio. In lontananza aerei demoliti fanno da sfondo a edifici desolati, hangar
semi vuoti lasciano il posto ad un capannone che è l’aeroporto internazionale
di Luanda.
Un incubo: quattro ore e mezza di
fila per timbrare il passaporto, tra gente stanca e sudata, come me, che cerca
di fregare il posto a chi c’è davanti. Occidentali, ci sentiamo sempre più
furbi del resto del mondo. Ogni tanto scorgo qualche acconciatura che sembra
tribale, sulla testa di qualche ragazza che sembra bella, nonostante diversa.
Superare questa prima barriera mi
ha condotto nelle mani del tizio incaricato dall’agenzia Panalpina di
accoglierci all’aeroporto: un ragazzone di un metro e novanta che ovviamente
non parla una parola ne d’inglese ne tanto meno di italiano. Ci porta fuori, un
caldo asfissiante si mescola all’odore irrespirabile dei gas di scarico dei
mezzi di trasporto, che visti da terra sono ancora più numerosi. Poco dopo
arriva il pulmino che ci deve portare al porto: aria condizionata e ampie
vetrate per la visione turistica di Luanda. Attraversandola, la città mette a
nudo tutta la regale miseria di questi abitanti “africani”, donne con grandi
ceste di tuberi e pane sulle teste, venditori ambulanti che rischiano la vita
cercando di piazzare la loro mercanzia proprio in mezzo alla strada, dove
guidatori come il nostro, “catanesi” nello stile, non fanno niente per
evitarli.
C’è un fascino particolare fra le
strade polverose e sporche di questo posto, famiglie intere sedute in qualche
angolo, aspettando che la madre venda un pacchetto di sigarette ai passanti per
poi acquistare un sacchetto di arachidi o un pezzo di radice da masticare con
in fratelli. Una ragazza ha una bancarella delle bibite, dei secchi di ghiaccio
sono pronti a raffreddare bibite dall’incredibile, consueta visione: Coca-cola, Heineken,
SevenUp. Baracche attrezzate a bazar dove si vende ogni tipo di cibarie, lungo
la strada che mi conduce al porto, dove attenderò altre due ore che una
barchetta carichi me e altre sette persone per condurci sulla nave posa cavi
Teliri, che è ormeggiata a rada, nel porto di Luanda, pieno di relitti e
rifiuti come la città che lo costeggia.
Luanda, 11/01/2008