venerdì 5 ottobre 2012

Settembre 2009, il mio primo Egitto.



Il caldo mi ha investito come un’onda appena uscito fuori dall’aeroporto, dopo tre ore e mezza di volo e mezza giornata di viaggio già in archivio dalle quattro e mezza del mattino, mi sentivo stanco e assonnato. Una ressa incredibile di persone che mi venivano incontro, alcuni senza motivo altri per offrirmi un viaggio in taxi o sigarette. Il mio primo Egitto è stato così, scomodo e infastidito. I miei colleghi li avevo incontrati al controllo del passaporto, non conoscevo nessuno e nessuno conosceva me, più tardi ho scoperto che avevano pensato fossi un imboscato che voleva risparmiarsi un po’ di fila. Una certa diffidenza iniziale si è dissolta quando abbiamo cominciato a scambiarci delle frasi, del tipo “Vieni a bordo con noi?”, “ E’ la prima volta che vieni qui?”, persone comunque a prima vista gentili. Gli uomini dell’agenzia ci hanno accompagnato a piedi ai piccoli pulmini che ci avrebbero condotto a Port Said, sponda occidentale (ma solo geograficamente) del Canale di Suez, dove saremmo imbarcati sulla nave da survey OTS Yeoman, dopo due ore e mezza di autostrada. Lasciammo Il Cairo dopo aver atteso che tutti salissero in macchina e ci avviammo verso la nostra destinazione. Era il 15 settembre 2009, pieno Ramadan e per la strada era possibile vedere gente che si fermava nelle piazzole di sosta per pregare mentre il nostro autista continuava a sfrecciare tra i camion, le motociclette, le macchine e i pedoni. Si, la gente a piedi attraversava incauta l’autostrada come si vede spesso nei cartoni animati, schivando i mezzi che sfrecciavano incuranti di possibili assassinii. Un paesaggio brullo, quasi desertico, niente piante, niente verde, anche se a sprazzi affioravano come dal nulla gruppi di case e palme; era molto caratteristico vedere delle sorta di stazioni di servizio, anche se definirle tali era un modo gentile per non chiamarle in altri modi meno piacevoli: ammassati su scaffali fatiscenti c’erano taniche di olio per motore, copertoni e altre scatole colorate, per poi vedere pochi metri più in la cartelloni della Coca Cola e frigoriferi con bevande di vario genere. Tutto questo quasi lo intuivo, la velocità del nostro pulmino era sostenuta e più di una volta gli occupanti avevano chiesto al “pilota” di rallentare. Dopo il tramonto, in uno dei tanti check-point che abbiamo attraversato, come al giro d’Italia, un uomo si accostò al nostro mezzo e porse al guidatore una busta, questo riprendendo la marcia, la aprì e tirò fuori una bottiglia d’acqua, degli snack e qualche panino, che mangiò con grande goduria: nel periodo del Ramadan i musulmani non possono ne bere ne mangiare dall’alba al tramonto, quindi quello che avevo visto era una specie di “servizio pubblico” che permetteva a chi lavorava sulla strada, lontano da casa, di potersi rifocillare dopo una giornata di digiuno. Arrivammo a Port Said in serata inoltrata, era buio e tutti eravamo piuttosto stanchi. Ma il primo passaggio obbligato era quello di presentarsi all’ufficio immigrazione per il timbro del passaporto e il controllo dei visti: un casermone presidiato dalla polizia locale dove sembrava ti guardassero tutti in modo sospettoso. Un graduato seduto dietro una scrivania al piano superiore ci fece sfilare ad uno ad uno, abbassando il capo quasi a voler dire “va bene, per questa volta puoi andare” e dopo una mezzora ci ritrovammo di nuovo nel pulmino che ci portò al Resta, un Hotel frequentato solitamente dai lavoratori stranieri che in tanti arrivano da queste parti. Ci sedemmo per la cena e aspettammo pazientemente che ci portassero le nostre ordinazioni; dopo un’ora e mezza arrivò il mio filetto alla griglia con patatine, pieno di spezie e aromi che nei giorni successivi avrei imparato a sopportare praticamente su tutto il cibo disponibile. Intanto cominciai ad avere un po’ di confidenza con i miei colleghi, facendo domande sul lavoro ma soprattutto sul posto in cui ci trovavamo, curioso come sono di natura e specialmente quando vado incontro ad una nuova civiltà: commenti divergenti, opinioni forse troppo dure, ma che cercavano di darmi un quadro quanto più realistico della situazione. Dopo le due di notte ci trovammo ad aspettare una barca che ci avrebbe portato sullo Yeoman, ormeggiato al molo principale ma un paio di chilometri più avanti. La prima impressione di questa vecchia nave da survey non fu delle migliori, confermava l’idea che mi ero fatto guardando la foto su internet: piuttosto piccola, vecchia e un po’ trasandata. Fatti i saluti di circostanza, mi informai sull’orario di lavoro per l’indomani e andai a letto, stanco e provato dal viaggio.
Il giorno dopo cominciò alle sette, colazione all’inglese (la mia preferita) e verso le otto la spartizione dei compiti, cercando il più possibile di farmi trovare disponibile e pronto, cosa che credo di non aver disatteso. Tralasciando di descrivere il lavoro svolto, passo a raccontarvi le sensazioni che ho raccolto guardandomi attorno mentre sostavo a fumare una sigaretta: tutto intorno era pieno di containers e capannoni, vicino al nostro ormeggio c’era il punto d’attracco delle navi che portavano il grano, una di queste era collegata al sistema di scarico che poi convogliava il cereale direttamente in dei silos. A questi ultimi erano state installate delle canalette che scaricavano il grano direttamente in dei camion che, in fila, passavano sotto, comandati dalle urla di operai che stabilivano quando la quantità di grano caricato era quella giusta per passare al successivo automezzo. La cosa che mi colpì fu che tutto quello che cadeva a terra, veniva successivamente raccolto da delle ruspe che lo rimettevano dentro al sistema: come dire, niente va sprecato, contravvenendo alle più elementari regole igieniche. Potevo solo immaginare la grandezza dei topi che sicuramente vivevano in quella struttura, ad avvistarli li si sarebbe scambiati per gatti o cani! Dall’altra parte del canale si stagliava grande e maestosa la grande moschea di Port Fuad, con i due giganteschi minareti ai lati, dominava il panorama ammirato da questa parte del porto. Immaginavo tutti gli uomini che ci andavano a pregare, specie in questo periodo sacro per gli islamici, con i loro canti simili a litanie, incomprensibili per noi occidentali, chinati sui loto tappeti e con le loro regole ferree da seguire. Più avanti, nella mia esperienza egiziana, avrei trovato modo di approfondire l’argomento con le persone locali che lavoravano sulla nave.
L'occasione che aspettavo arrivò qualche giorno dopo, quando decidetti di uscire da solo, per le vie della città, immerso in tutto quello che non mi era mai appertenuto. Camminai per tutto il pomeriggio, fra le strade incrociate di Port Said, fra odore di piscio dei cani e quello delle spezie della via del mercato, mi sedetti ad un bar e ordinai un the. L'oste era diffidente, in un primo momento titubante, ma poco dopo invece si dimostrò socievole, anche se non capivamo un sola parola l'uno dell'altro, a gesti mi feci portare una sciscià, un arghilè, per fumare del tabacco aromatizzato, gustai il mio the e mi sentii parte di tutto quello che prima non mi apparteneva. Tornai sulla nave a sera tarda, cammminando per i moli del porto scansando cumuli di immondizia e cani randagi, ma ero felice, felice di aver raccolto un pezzo di civiltà che prima non mi apparteneva.  

Port Said, Settembre 2009

Ora tocca a voi.


Ho preso la decisione di rassegnare le dimissioni da assessore comunale dopo una profonda riflessione, tutta personale, che mi ha portato alla convinzione che nella vita ci sono momenti in cui si è chiamati a fare gli uomini responsabili:  la mia famiglia ha bisogno di me, più di quanto ne abbia bisogno la politica. 
In 5  anni prima e in 5 mesi adesso, ho dato tutto me stesso alla città, sacrificando alla vita pubblica la vita privata, giorno e notte. Ho rifiutato diversi progetti e ho detto diversi no alla società per cui lavoro per non alimentare le polemiche che di volta in volta si sono innescate con la mia assenza. Facendo questo ho privato la mia famiglia del sostegno che un marito e un padre devono dare e francamente, con tutto il rispetto, non è cosa buona e giusta. Il mio lavoro mi impegna all’estero per diversi mesi l’anno e l’impegno politico non è conciliabile con tale assenza, poiché il mio partito deve poter essere rappresentato quotidianamente nelle scelte amministrative, fosse anche per indirizzarle su posizioni diverse, quando lo riteniamo necessario. In 5 mesi da assessore ho portato avanti decine di iniziative e progetti, ho sostenuto il nostro sindaco lealmente, ho dissotterrato dall’oblio questioni importanti come il PRG, il porto, l’ex stabilimento Giuffrida, sono stato in prima linea con coloro i quali hanno detto basta al sistema malato della gestione dei rifiuti, ho lavorato per il riordino della macchina amministrativa, ho realizzato insieme a Sudano un’estate pozzallese ricca con i soldi che normalmente altri spendevano in due  serate, insomma, ho messo tutto me stesso al servizio della comunità, cercando sempre la legalità e il senso del dovere. Ora, questo stesso senso del dovere mi impone di cambiare la mia vita e dedicarla al futuro dei miei figli, libero di essere me stesso sempre, referente solo della mia famiglia e dei miei ideali. Assieme alle dimissioni da assessore, rassegnerò  anche quelle di segretario cittadino di Sinistra Ecologia Libertà, perché anche il partito ha bisogno di un segretario presente e ora i compagni sono tanti, la sezione è viva e può esprimere diverse figure capaci di questo impegno. 
Concludo ringraziando Luigi Ammatuna per la fiducia che mi ha concesso, la Giunta, augurando a tutti un buon lavoro e gli uffici con i quali ho lavorato in questi mesi, con l’auspicio di un rinnovato e continuo impegno verso il cambiamento.
Infine, un sentito grazie ai miei compagni di partito, un gruppo meraviglioso che crescerà ancora e contribuirà al progresso della nostra città negli anni a venire, orgoglioso di averli sostenuti in questi anni, sin  da quando eravamo in pochissimi, in una sezione deserta, contribuendo alla crescita del partito giorno dopo giorno, fino alla situazione attuale che ci vede protagonisti della vita amministrativa di Pozzallo e in prima linea in provincia con Ennio Ammatuna candidato alle regionali.

domenica 1 luglio 2012

Diario di viaggio: Luanda, gennaio 2008


Da tempo, durante i miei viaggi di lavoro, mi piace scrivere il mio diario di viaggio, non perchè serva a qualcosa, ma solo per il piacere di ricordare ciò che la mia mente, da sempre, tende a dimenticare col passare del tempo.
Allora ho deciso di condividere con chi si troverà per caso su questo blog, alcuni di questi scritti, senza nulla pretendere. Buona lettura.


Angola, gennaio 2008

Questa mattina è iniziato il viaggio che mi porterà in Angola, dove inizierò il mio nuovo lavoro.
Sono seduto su di una poltrona “in serie” all’aeroporto Leonardo da Vinci di Roma, con il mio nuovo collega A. V., e aspetto annoiato l’aereo che mi porterà a Lisbona.
Dopo quasi tre anni di matrimonio questa è la prima volta che lascio la mia famiglia. Il mio bambino è ancora dentro la mia amata moglie e questo rende questa partenza ancora più difficile e dura. Lo sto facendo per loro, per costruire un futuro migliore. Credo sia la prima volta che realmente faccio dei sacrifici fisici per loro. In questo sporco mondo, dove l’economia e il capitale regnano su tutto, sulla politica, sulle religioni, persino sui sentimenti, anch’io mi sento schiavo di questo sistema che mi costringe a cercare di più. A volte non ci rendiamo nemmeno conto di come siamo voraci, di quanto il consumo ci abbia privato. Eppure la mia speranza è riposta in mio figlio e in tutti i figli che nasceranno nel mondo, la speranza che essi percepiscano in tempo il pericolo e cambino rotta, salvandoci dall’estinzione.

Roma, Fiumicino, 10/01/2008


Un viaggio interminabile!
Nell’aereo per Lisbona sono saliti diversi uomini africani, credo del Senegal, dell’Angola, insomma dell’Africa nera, profonda, di quel continente magico e disgraziato che mi accoglierà in questa esperienza di lavoro. Sono persone affascinanti, con i loro abiti lunghi, alcuni di colore vivo, penetrante come il viola, il ciclamino; la cosa che più mi ha colpito è il loro strano profumo: un odore quasi di spezie, che ricorda i mercati arabi della Tunisia. Un profumo che ti ammalia e ti strega come una pozione magica, come l’odore stesso di un Continente.
Arrivati in aeroporto hanno occupato ognuno un posto, su una poltrona o su una sedia. Come richiamati da una forza sconosciuta ad un certo punto si sono riuniti e hanno iniziato a pregare, per terra, su di un lenzuolo che portano con loro. Che forza di volontà, che fede. Noi cristiani di ogni giorno, non saremmo capaci a manifestare senza vergogna la nostra fede in un aeroporto. Ammiro questa gente, così piena di fede, portatori della loro cultura ovunque nel mondo, senza problemi, con la semplicità delle persone che sanno ancora apprezzare il valore del tempo o il dialogo con i propri fratelli.

Lisbona, 10/01/2008

Vedere dall’alto la capitale dell’Angola è stato come assistere allo scoperchiamento di un formicaio: centinaia, migliaia di macchine, camion, pulmini, scorrono l’uno contro l’altro senza soluzione di continuità. E poi le persone, viste da lassù, minuscole, brulicanti in mezzo alle macchine. La terra tutta intorno è rossa, di un rosso “marziano” che confonde le case con tutto il resto. Luanda è una metropoli del Terzo Mondo, come si dice ora, le cui forti contraddizioni si scorgono pure dalla vista in un aereo. Siamo arrivati in perfetto orario all’aeroporto, tra la gioia di aver messo i piedi per terra e lo stupore per un caldo estivo a gennaio. In lontananza aerei demoliti fanno da sfondo a edifici desolati, hangar semi vuoti lasciano il posto ad un capannone che è l’aeroporto internazionale di Luanda.
Un incubo: quattro ore e mezza di fila per timbrare il passaporto, tra gente stanca e sudata, come me, che cerca di fregare il posto a chi c’è davanti. Occidentali, ci sentiamo sempre più furbi del resto del mondo. Ogni tanto scorgo qualche acconciatura che sembra tribale, sulla testa di qualche ragazza che sembra bella, nonostante diversa.
Superare questa prima barriera mi ha condotto nelle mani del tizio incaricato dall’agenzia Panalpina di accoglierci all’aeroporto: un ragazzone di un metro e novanta che ovviamente non parla una parola ne d’inglese ne tanto meno di italiano. Ci porta fuori, un caldo asfissiante si mescola all’odore irrespirabile dei gas di scarico dei mezzi di trasporto, che visti da terra sono ancora più numerosi. Poco dopo arriva il pulmino che ci deve portare al porto: aria condizionata e ampie vetrate per la visione turistica di Luanda. Attraversandola, la città mette a nudo tutta la regale miseria di questi abitanti “africani”, donne con grandi ceste di tuberi e pane sulle teste, venditori ambulanti che rischiano la vita cercando di piazzare la loro mercanzia proprio in mezzo alla strada, dove guidatori come il nostro, “catanesi” nello stile, non fanno niente per evitarli.
C’è un fascino particolare fra le strade polverose e sporche di questo posto, famiglie intere sedute in qualche angolo, aspettando che la madre venda un pacchetto di sigarette ai passanti per poi acquistare un sacchetto di arachidi o un pezzo di radice da masticare con in fratelli. Una ragazza ha una bancarella delle bibite, dei secchi di ghiaccio sono pronti a raffreddare bibite dall’incredibile,  consueta visione: Coca-cola, Heineken, SevenUp. Baracche attrezzate a bazar dove si vende ogni tipo di cibarie, lungo la strada che mi conduce al porto, dove attenderò altre due ore che una barchetta carichi me e altre sette persone per condurci sulla nave posa cavi Teliri, che è ormeggiata a rada, nel porto di Luanda, pieno di relitti e rifiuti come la città che lo costeggia.

Luanda, 11/01/2008