Il caldo mi ha investito come un’onda appena uscito fuori
dall’aeroporto, dopo tre ore e mezza di volo e mezza giornata di viaggio già in
archivio dalle quattro e mezza del mattino, mi sentivo stanco e assonnato. Una
ressa incredibile di persone che mi venivano incontro, alcuni senza motivo
altri per offrirmi un viaggio in taxi o sigarette. Il mio primo Egitto è stato
così, scomodo e infastidito. I miei colleghi li avevo incontrati al controllo
del passaporto, non conoscevo nessuno e nessuno conosceva me, più tardi ho
scoperto che avevano pensato fossi un imboscato che voleva risparmiarsi un po’
di fila. Una certa diffidenza iniziale si è dissolta quando abbiamo cominciato
a scambiarci delle frasi, del tipo “Vieni a bordo con noi?”, “ E’ la prima
volta che vieni qui?”, persone comunque a prima vista gentili. Gli uomini
dell’agenzia ci hanno accompagnato a piedi ai piccoli pulmini che ci avrebbero
condotto a Port Said, sponda occidentale (ma solo geograficamente) del Canale
di Suez, dove saremmo imbarcati sulla nave da survey OTS Yeoman, dopo due ore e
mezza di autostrada. Lasciammo Il Cairo dopo aver atteso che tutti salissero in
macchina e ci avviammo verso la nostra destinazione. Era il 15 settembre 2009,
pieno Ramadan e per la strada era possibile vedere gente che si fermava nelle
piazzole di sosta per pregare mentre il nostro autista continuava a sfrecciare
tra i camion, le motociclette, le macchine e i pedoni. Si, la gente a piedi
attraversava incauta l’autostrada come si vede spesso nei cartoni animati,
schivando i mezzi che sfrecciavano incuranti di possibili assassinii. Un
paesaggio brullo, quasi desertico, niente piante, niente verde, anche se a
sprazzi affioravano come dal nulla gruppi di case e palme; era molto caratteristico
vedere delle sorta di stazioni di servizio, anche se definirle tali era un modo
gentile per non chiamarle in altri modi meno piacevoli: ammassati su scaffali
fatiscenti c’erano taniche di olio per motore, copertoni e altre scatole
colorate, per poi vedere pochi metri più in la cartelloni della Coca Cola e
frigoriferi con bevande di vario genere. Tutto questo quasi lo intuivo, la
velocità del nostro pulmino era sostenuta e più di una volta gli occupanti
avevano chiesto al “pilota” di rallentare. Dopo il tramonto, in uno dei tanti
check-point che abbiamo attraversato, come al giro d’Italia, un uomo si accostò
al nostro mezzo e porse al guidatore una busta, questo riprendendo la marcia,
la aprì e tirò fuori una bottiglia d’acqua, degli snack e qualche panino, che
mangiò con grande goduria: nel periodo del Ramadan i musulmani non possono ne
bere ne mangiare dall’alba al tramonto, quindi quello che avevo visto era una
specie di “servizio pubblico” che permetteva a chi lavorava sulla strada,
lontano da casa, di potersi rifocillare dopo una giornata di digiuno. Arrivammo
a Port Said in serata inoltrata, era buio e tutti eravamo piuttosto stanchi. Ma
il primo passaggio obbligato era quello di presentarsi all’ufficio immigrazione
per il timbro del passaporto e il controllo dei visti: un casermone presidiato
dalla polizia locale dove sembrava ti guardassero tutti in modo sospettoso. Un
graduato seduto dietro una scrivania al piano superiore ci fece sfilare ad uno
ad uno, abbassando il capo quasi a voler dire “va bene, per questa volta puoi
andare” e dopo una mezzora ci ritrovammo di nuovo nel pulmino che ci portò al
Resta, un Hotel frequentato solitamente dai lavoratori stranieri che in tanti
arrivano da queste parti. Ci sedemmo per la cena e aspettammo pazientemente che
ci portassero le nostre ordinazioni; dopo un’ora e mezza arrivò il mio filetto
alla griglia con patatine, pieno di spezie e aromi che nei giorni successivi
avrei imparato a sopportare praticamente su tutto il cibo disponibile. Intanto
cominciai ad avere un po’ di confidenza con i miei colleghi, facendo domande
sul lavoro ma soprattutto sul posto in cui ci trovavamo, curioso come sono di
natura e specialmente quando vado incontro ad una nuova civiltà: commenti
divergenti, opinioni forse troppo dure, ma che cercavano di darmi un quadro
quanto più realistico della situazione. Dopo le due di notte ci trovammo ad
aspettare una barca che ci avrebbe portato sullo Yeoman, ormeggiato al molo
principale ma un paio di chilometri più avanti. La prima impressione di questa
vecchia nave da survey non fu delle migliori, confermava l’idea che mi ero
fatto guardando la foto su internet: piuttosto piccola, vecchia e un po’
trasandata. Fatti i saluti di circostanza, mi informai sull’orario di lavoro
per l’indomani e andai a letto, stanco e provato dal viaggio.
Il giorno dopo cominciò alle sette, colazione all’inglese
(la mia preferita) e verso le otto la spartizione dei compiti, cercando il più
possibile di farmi trovare disponibile e pronto, cosa che credo di non aver
disatteso. Tralasciando di descrivere il lavoro svolto, passo a raccontarvi le
sensazioni che ho raccolto guardandomi attorno mentre sostavo a fumare una
sigaretta: tutto intorno era pieno di containers e capannoni, vicino al nostro
ormeggio c’era il punto d’attracco delle navi che portavano il grano, una di
queste era collegata al sistema di scarico che poi convogliava il cereale
direttamente in dei silos. A questi ultimi erano state installate delle
canalette che scaricavano il grano direttamente in dei camion che, in fila,
passavano sotto, comandati dalle urla di operai che stabilivano quando la
quantità di grano caricato era quella giusta per passare al successivo
automezzo. La cosa che mi colpì fu che tutto quello che cadeva a terra, veniva
successivamente raccolto da delle ruspe che lo rimettevano dentro al sistema:
come dire, niente va sprecato, contravvenendo alle più elementari regole
igieniche. Potevo solo immaginare la grandezza dei topi che sicuramente
vivevano in quella struttura, ad avvistarli li si sarebbe scambiati per gatti o
cani! Dall’altra parte del canale si stagliava grande e maestosa la grande
moschea di Port Fuad, con i due giganteschi minareti ai lati, dominava il
panorama ammirato da questa parte del porto. Immaginavo tutti gli uomini che ci
andavano a pregare, specie in questo periodo sacro per gli islamici, con i loro
canti simili a litanie, incomprensibili per noi occidentali, chinati sui loto
tappeti e con le loro regole ferree da seguire. Più avanti, nella mia
esperienza egiziana, avrei trovato modo di approfondire l’argomento con le
persone locali che lavoravano sulla nave.
L'occasione che aspettavo arrivò qualche giorno dopo, quando decidetti di uscire da solo, per le vie della città, immerso in tutto quello che non mi era mai appertenuto. Camminai per tutto il pomeriggio, fra le strade incrociate di Port Said, fra odore di piscio dei cani e quello delle spezie della via del mercato, mi sedetti ad un bar e ordinai un the. L'oste era diffidente, in un primo momento titubante, ma poco dopo invece si dimostrò socievole, anche se non capivamo un sola parola l'uno dell'altro, a gesti mi feci portare una sciscià, un arghilè, per fumare del tabacco aromatizzato, gustai il mio the e mi sentii parte di tutto quello che prima non mi apparteneva. Tornai sulla nave a sera tarda, cammminando per i moli del porto scansando cumuli di immondizia e cani randagi, ma ero felice, felice di aver raccolto un pezzo di civiltà che prima non mi apparteneva.
Port Said, Settembre 2009